L’AFGANISTAN E LA “GUERRA SANTA” ALLA DEMOCRAZIA

Articolo di Pietro Giubilo

A proposito di Afganistan, in questi giorni drammatici, la questione umanitaria sovrasta ogni altra considerazione. Le immagini che giungono da Kabul, il convulso esodo degli occidentali, la  richiesta di aiuto di chi aveva  creduto nella “liberazione” e si era impegnato a costruire uno stato che iniziasse il percorso democratico, i disperati tentativi di infilarsi nei porta carrelli degli aerei finiti tragicamente, i bambini lanciati dalle madri ai soldati,  con ragione muovono a commozione l’opinione pubblica occidentale. Questo dramma, al quale dovrebbe corrispondere, per tutto l’Occidente, il dovere dell’accoglienza dei rifugiati,  si riveste, purtroppo in Italia,  della farsa della polemica,  mentre altre preoccupazioni dovrebbero scuotere l’indolente e miope politica estera, il cui responsabile si distingue per il suo imperturbabile aplomb balneare. Anche in questo ambito si rivela fondamentale  la “supplenza” di Mario Draghi che auspica un ampio coinvolgimento internazionale per fronteggiare e contenere il nuovo regime talebano .

Su questa angosciosa realtà che si è presentata quasi improvvisamente e che giustamente colpisce a fondo le coscienze di tutto il mondo, si misurerà la solidarietà internazionale, la forza delle organizzazioni preposte alle emergenze, la coerenza tra il dire e il fare di ogni Stato chiamato a dimostrare   come la questione della violazione dei diritti sovrasti ogni convenienza politica o mercantile che sia.

Ma occorre anche considerare che il dramma umanitario, in questa vicenda,  è l’effetto del riaffacciarsi e della presa del potere di una grave minaccia per l’Occidente, già conosciuta nella sua sfida, rispetto alla quale  è, innanzitutto,  doveroso  assumere una adeguata consapevolezza.

La realtà ci dice che l’islamismo più radicale, quello per intenderci che organizzò l’attacco alle Torri Gemelli di New York, è ridiventato una entità statale, rilevando il cospicuo arsenale  militare che l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti , aveva consegnato al governo afgano. Pur considerando le diversità esistenti tra Isis e talebani è evidente che ciò che non è   riuscito  a Mosul perché sconfitto in Siria e Iraq dalla coalizione e soprattutto dalla determinazione della Russia, è stato raggiunto a Kabul, ove il potere è passato in mano ai talebani, che Sergio Romano ha definito “una delle più radicali milizie religiose del mondo islamico”.

 L’arrendevolezza del governo di Ashraf Ghani, oltre la fragilità istituzionale e morale, fa ritenere che tale ascesa abbia avuto complicità geopolitiche. In particolare emerge, come ha scritto Huffpost, che la “vittoria dei talebani”, sia stata “foraggiata” dal Pakistan e che, come ha ricordato  il Washington Post, “per oltre  mezzo secolo il Pakistan ha dato manforte a elementi militanti in Afganistan” . Non a caso il fondatore di al Quaeda, Osama bin Laden, venne ucciso dai Navy Seals americani nel suo rifugio non lontano dalla principale accademia militare del Pakistan.

Questa “congiunzione”  tra Afganistan, dove sono stabilmente insediati i terroristi, e il Pakistan presenta un doppio aspetto su cui riflettere.  Uno di carattere geopolitico: esso corrisponde all’interesse di quella che viene chiamata la “profondità strategica” di Islamabad nei riguardi dell’India per quel  conflitto non solo  strisciante tra le due nazioni e che , in qualche modo, non  dispiace a Pechino, considerando che Nuova Delhi è stata sempre allineata ai paesi occidentali. Vi è poi un inquietante implicazione  di carattere militare, considerando che il Pakistan possiede un importante arsenale bellico   nucleare  e che fu sospettato di passare il know how , attraverso Abdul Qadeer Khan, all’Iran di Komeini.

Il “distacco” degli Stati Uniti avviato da Trump e  concluso da Biden è stato valutato come un errore o un “rinuncia” a svolgere quello che superficialmente viene definito come il compito di “gendarme” del mondo. Il problema, evidentemente,  è più complesso. Gli Usa non possono rinunciare al loro ruolo “imperiale”. Possono esserci differenti  modi con i quali Washington intenda affermarlo. La rinuncia all’avamposto militare sul territorio afgano, ritenuto di limitato valore strategico,  può essere sostituito con una più decisa strategia di dissuasione che, già nel tempo della guerra fredda , affiancava la presenza militare delle basi americane. C’è da credere che un eventuale rilancio del terrorismo su scala internazionale, che vedesse complici gli attuali  padroni di Kabul, potrebbe andare incontro a rappresaglie mirate  assai  radicali seppur diverse rispetto a quelle operazioni che scaturirono dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.  E questo sarebbe anche in sintonia con il potere che il Pentagono è andato assumendo rispetto ad una certa debolezza delle classi politiche americane. Emerge anche un altro aspetto: gli eventi e i ruoli richiamano la responsabilità di una Europa che si ostina a non considerare come inderogabile   la necessità di una difesa comune. Del resto i paesi europei della Nato già partecipano alle missioni, manca l’essenziale coordinamento strategico e di politica estera  che un “esercito comune” può realizzare.

Molti opinionisti si sono espressi criticamente sulla “ritirata” di Washington, fino a mettere in discussione la validità dell’intervento deciso da George W. Bush ventisei giorni dopo l’attentato. Andrebbe ricordato che il coinvolgimento della Nato, avvenne in base all’articolo 5 del suo Statuto, in considerazione che l’attacco a uno dei paesi membri venne giustamente ritenuto come un attacco all’intera alleanza. Ma l’obbiettivo di queste critiche va ben oltre e, come ha rilevato, giustamente, Angelo Panebianco, intende “istituire un grande processo contro la società occidentale, i suoi principi e le sue realizzazioni”. Non è questo che stiamo vivendo il tempo di  dare spazio a  “tribunali” intellettuali supponenti o, quantomeno utopistici.

Per la verità, la circostanza degli eventi politici di questi giorni ha fatto riemergere anche un’ altra questione che Galli della Loggia ha stigmatizzato con un fondo sul Corsera e cioè la tesi per la quale “sarebbe sciocco oltre che inutile tentare di ‘ esportare la democrazia’ in culture diverse dalle nostre”, con il corollario che l’affermazione della democrazia o la sua difesa non debbano essere condotte con la guerra.

Già alcuni scritti, ripubblicati,  di Giovanni Sartori confermano la tesi dell’esportabilità della democrazia in nazioni con culture diverse come Giappone e India. In alcuni paesi islamici, peraltro, si è raggiunta una compatibilità dei regimi con elementi  di democrazia rappresentativa. E’ facile, poi,  rispondere con i riferimenti storici delle due guerre mondiali nelle quali, particolarmente nei primi anni ’40,  lo sradicamento  dei regimi totalitari “costò“, oltre che poderose operazioni militari, anche  centinaia di migliaia  di morti civili, con i bombardamenti nelle città del nord della Germania e con le atomiche di Hiroshima e Nagasaki per piegare il Giappone.  I regimi totalitari , peraltro, ambivano ad allargare la loro influenza territoriale, anch’essa una minaccia alla democrazia ed all’ autodeterminazione dei popoli; il terrorismo presenta una insidia meno evidente, analoga ma più subdola, quella di piegare il ruolo e la credibilità delle entità statali, tenendo le società occidentali sotto una minaccia permanente,  una guerra psicologica e rivoluzionaria che ha l’intenzione di  destabilizzare le democrazie.

Si deve affermare che sono proprio queste “revisioni” che, spostando la  critica dal terrorismo – che ogni anno miete  migliaia di vittime cristiane –  al comportamento dell’Occidente, inducono  alla  paventata rinuncia di questo  ad affermare il primato dei principi di libertà e di  democrazia, rispetto ad un assolutismo religioso e politico che, oltretutto, contrasta quelle correnti islamiche che mostrano di voler convivere e collaborare con le democrazie occidentali.  Questa rinuncia può essere più rischiosa di quella militare da Kabul.

 Qualcuno, anche in un passato recente, ha interpretato il nuovo radicalismo religioso come l’incontro tra l’Islam e il concetto moderno di  rivoluzione, che ha animato la “guerra santa” contro le società democratiche.  C’è in giro un nichilismo politico, anche in Italia, che ne sottovaluta i rischi e che si balocca con le parole, dichiarando  che con questa dura e minacciosa  realtà, definita “distensiva”, sia possibile il dialogo e la collaborazione.

Ancora una volta in questi difficili giorni scanditi dalla continuità della minaccia del Covid, si deve guardare  con preoccupato realismo agli avvenimenti del lontano Oriente,  basando, comunque,  la fiducia  nella democrazia, sulla speranza che suscita la forza di una ispirazione spirituale che renda gli uomini più liberi e forti, nella certezza che i suoi nemici “non prevarranno”.

PIETRO  GIUBILO

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