I NUMERI/ Quei nodi che frenano (ancora) l’Italia del lavoro

su “Il Sussidiario.net”. 

L’occupazione in Italia continua a essere in ripresa. Ciò nonostante il mercato del lavoro continua a scontare problemi importanti.

L’economia italiana nell’era post-Covid continua a generare posti di lavoro (+445 mila rispetto al dicembre 2021), per la stragrande parte dipendenti a tempo indeterminato. L’aumento dell’occupazione ha contribuito a ridurre i bacini delle persone inattive (-413 mila) e di quelle in cerca di lavoro (-243 mila). In parallelo aumenta dal 31% al 45% la difficoltà delle imprese nel reperire i profili professionali necessari a soddisfare i fabbisogni, segnalando che, a determinate condizioni, la crescita occupazionale poteva essere più significativa. In alcuni settori la carenza di personale sta comportando la rinuncia da parte delle aziende a espandere le attività per soddisfare una domanda di prodotti e servizi disponibile nel mercato.

n parallelo, le difficoltà a reperire manodopera in molti settori ad alta intensità di occupazione sta spingendo il sistema delle imprese a richiedere un massiccio aumento delle quote d’ingresso di nuovi lavoratori extracomunitari, stimabili in circa 250 mila potenziali lavoratori per i prossimi 5 anni. Un cifra che coincide in modo singolare con il saldo negativo che viene stimato tra l’esodo dei lavoratori che vanno in pensione e il numero dei giovani che dovrebbero entrare nel mercato del lavoro dopo i percorsi scolastici.

Le richieste delle associazioni imprenditoriali di pressoché tutti i settori, in particolare dell’agricoltura, delle costruzioni, dei servizi turistici e della ristorazione da per danno per scontata l’impossibilità di supplire a questo turnover attingendo al bacino dei 4,5 milioni di disoccupati, o inattivi che si dichiarano disponibili a lavorare, presente in Italia. Questi temi vengono accuratamente aggirati nel dibattito pubblico che continua a essere dominato dalla retorica del precariato, identificato con il numero dei contratti a termine, e delle disuguaglianze salariali e di reddito che motivano l’esigenza di incrementare le risorse pubbliche destinate a contenerle.

Il primo è rappresentato dalla bassa intensità degli investimenti formativi e dalla dispersione di quelli esistenti. Il gap di laureati e diplomati rispetto alla media dei Paesi Ue è eclatante e ha influenzato in negativo anche le caratteristiche del ricambio imprenditoriale e professionale di molti settori economici. Tutti gli indicatori che segnalano il grado di integrazione tra il sistema formativo nel suo complesso e le dinamiche del mondo del lavoro (livelli di soddisfazione dei fabbisogni professionali, tempi di inserimento post scolastico, dinamiche salariali, utilizzo dei rapporti duali di formazione e lavoro) rimangono distanti dai risultati ottenuti nei Paesi Ocse. In queste condizioni stiamo affrontando un’ondata di innovazioni tecnologiche e organizzative destinata ad accelerare l’obsolescenza della maggior parte delle professioni in essere.

Di fronte alla constatazione della stagnazione dei salari reali nella comparazione con le retribuzioni dei lavoratori delle altre nazioni aderenti all’Ue, si è diffusa la curiosa idea che il divario sia motivato dalla carenza di una legislazione che impone alle imprese la fissazione di salari minimi. Nei tempi recenti a queste letture si è associata persino una parte rilevante delle confederazioni sindacali, la Cgil e la Uil, facendo finta di ignorare che in tal caso la responsabilità di questo risultato, sempre ammessa la correttezza delle analisi, dovrebbe essere attribuita alle parti sociali italiane che hanno sottoscritto i Contratti collettivi nazionali applicati nella stragrande maggioranza delle imprese e ad oltre il 90% dei lavoratori.

In effetti il sistema di contrattazione italiano, fondato sulla centralità dei contratti collettivi di settore nazionali, risulta più sensibile di altri nel tutelare i bassi salari, ma molto meno nel favorire la loro crescita in relazione agli aumenti della produttività, che vengono considerati, in modo paradossale, come un fattore di crescita delle disuguaglianze interne alla classe lavoratrice, anziché uno stimolo all’aumento della ricchezza come condizione per la sua redistribuzione. Il risultato finale è lo spostamento delle rivendicazioni dalla dialettica tra le parti sociali per il rinnovo dei contratti collettivi verso lo Stato come distributore di risorse verso i redditi medio bassi, a discapito dei contribuenti che pagano le tasse, per la gran parte il ceto medio alto dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Nelle nuove condizioni del mercato del lavoro una spinta alla crescita della produttività e dei salari diventa indispensabile per favorire una migliore allocazione degli investimenti e delle opportunità di lavoro.

La scarsità degli investimenti sulle risorse umane e degli stimoli per la crescita della produttività denotano la lontananza delle relazioni industriali dai reali fabbisogni della produzione e del mercato del lavoro, ma evidenziano anche i percorsi che possono consentire di mobilitare una massa critica di attori che possono contribuire in prima persona a migliorare l’utilizzo delle risorse disponibili in un Paese che tende strutturalmente a sotto utilizzarle.

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