Smart working, ma non troppo

Articolo di Riccardo Fratini – avvocato in Roma ed Esperto Mise addetto ai tavoli di crisi.

Durante l’emergenza epidemiologica sono comparsi in rete migliaia di articoli di valenti e visionari autori che intravedevano nel repentino passaggio allo smart working reso obbligatorio dalla pandemia il segnale di un cambiamento che difficilmente sarebbe stato reversibile nel modo di lavorare.

È indubbio che una certa influenza ci sia stata e che molte realtà abbiano compiuto significativi passi in avanti nel percorso verso la delocalizzazione del lavoro.

Occorre però anche ammettere che è vero un po’ anche il contrario e cioè che, diversamente da quanto molti hanno vaticinato qualche tempo fa, la maggior parte delle imprese sembra aver ripreso l’atteggiamento cauto nei confronti del lavoro agile che si aveva prima della pandemia e questo vale sia per il settore pubblico che per il settore privato.

La PA e il lavoro agile

In particolare, nelle pubbliche amministrazioni, come specificavano ieri le FAQ pubblicate dalla Funzione Pubblica sul proprio sito, già il Patto del 10 marzo 2021 aveva segnato l’avvio di un percorso che intendeva entro fine aprile prevedere il superamento di vincoli rigidi e soglie percentuali minime per l’applicazione dello smart working nella Pubblica amministrazione, dal 15 ottobre il ripristino del lavoro in presenza come modalità ordinaria nella Pa e il decollo delle trattative per i rinnovi contrattuali, nell’ambito dei quali devono essere disciplinati i vari aspetti connessi al lavoro agile “non emergenziale” (diritto alla disconnessione, fasce di contattabilità, diritto alla formazione specifica, protezione dei dati personali, regime dei permessi e delle assenze, etc.).

Il 21 dicembre è stata firmata la pre-intesa per il comparto funzioni centrali e alcuni aspetti sono stati anticipati per tutta la Pubblica amministrazione nelle Linee guida in materia di lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche.

Già in queste linee guida, però, il passo indietro sembra repentino e forse non poteva essere diversamente dopo che qualcuno aveva persino paventato l’incostituzionalità di uno smart working troppo in odore di inefficienza e che con una battuta qualcuno aveva soprannominato “non-working”.

Al primo punto delle linee, infatti, troneggia le necessità di invarianza dei servizi resi all’utenza, che era al centro della polemica.

Quindi per ora lavoro in presenza e al massimo qualche “rotazione” per consentire un po’ a tutti gli interessati di fruire della forma agile, ma solo per uno o due giorni alla settimana. Fanno eccezione, per ora, i lavoratori fragili e qualche altra categoria, destinate a scemare insieme all’affievolirsi del problema sanitario, che pure ad oggi appare un miraggio lontano.

In ogni caso, non si può negare che qualche cambiamento ci sia stato, visto che stando ai dati Istat pubblicati lo scorso 15 dicembre 2021 nel primo anno della pandemia, solo il 3,6% delle istituzioni pubbliche era già precedentemente attrezzato con strutture e iniziative di lavoro agile, mentre dopo l’emergenza si va da un minimo del 73,4% di utilizzo da parte delle istituzioni pubbliche del Sud a un massimo dell’80,9% nel Centro.

Lo smart working nel settore privato

Solo un mese fa, all’inizio di dicembre, Confindustria e sindacati salutavano con Giubilo l’avvento del Protocollo Nazionale sul Lavoro in modalità Agile per il settore privato.

Nonostante gli entusiasmi, si può dubitare che questo significherà un cambiamento radicale nelle abitudini di milioni di lavoratori, se si considera che – stando al Rapporto Annuale 2021 dell’Istat – già nel 2020 si era rilevato un vero e proprio picco di lavoro in remoto solo nel secondo trimestre 2020 (4,5 milioni di lavoratori), mentre la media dell’anno è stata solo del 14%, ovvero poco più di 3 milioni di lavoratori, il che dimostra che tanti erano tornati in presenza già nella seconda metà del primo anno di pandemia.

La sfida

In un articolo di Donato Bonanni (https://www.ripensiamoroma.com/lo-smart-working-il-futuro-del-lavoro-2/) pubblicato su l’Opinione del 12 maggio 2020″, ci si poneva la domanda: «Ma dopo il Coronavirus, possiamo immaginare un lavoro agile diverso, equilibrato e accessibile per tutti i lavoratori?» e si affermava che «le aziende, le pubbliche amministrazioni e la società nel suo insieme devono cogliere l’opportunità di rivedere alla luce di questa esperienza».

Ebbene, a voler essere del tutto sinceri, sembrerebbe che il mondo pubblico e privato abbiano risposto a questa sfida con un certo grado di diffidenza, se non per il lavoro agile, quantomeno per i lavoratori agili.

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